A CHE SERVE? (SUL PRINCIPIO DI UTILITA’)

La pausa estiva sta volgendo al termine e la ripresa lavorativa si affaccia alle nostre vite come ogni anno, magari carica anche di buoni propositi maturati durante le vacanze. Certamente per tutti, mi auguro soprattutto che abbiate potuto ricaricare al meglio le vostre energie e che il rilascio del beneficio conquistato tra una nuotata e una passeggiata, un gelato e uno spritz, sia lento e costante nei prossimi mesi.

A questo proposito vorrei proporvi una modalità un po’ diversa per affrontare e svolgere ogni attività in cui siamo e saremo impegnati. Una modalità che, guarda caso, presuppone qualche riflessione ma che, potete starne certi, ci aiuterà a disperdere meno energie regalandoci una sensazione di benessere duratura.

Questa modalità nasce da una riflessione che ha accompagnato con costanza le mie vacanze rendendomi sensibile a tutti i “segni” di vario tipo che l’hanno alimentata (persino i libri che ho scelto di leggere).

La mia piacevole ossessione (si, posso chiamarla così) di cui vi sto parlando può prendere il nome di PRINCIPIO DI UTILITÀ. Ovvero QUANTO e COME e a CHI ma soprattutto a COSA è utile ciò che faccio, scrivo, dico?

In apparenza la domanda potrebbe avere semplice risposta, ma in realtà la faccenda è più complessa se vogliamo che apra e sviluppi la nostra consapevolezza.

Cosa significa per noi UTILE? Forse non ce lo siamo mai chiesto e portiamo avanti le nostre svariate attività senza pensare a quale sarà la loro RICADUTA più ampia: già, perché ogni nostra azione, pensiero, parola ha un effetto di cui, spesso, non siamo così coscienti.

Certamente c’è un’utilità concreta e immediata di ogni azione/lavoro, dal guadagno che ne deriva al riconoscimento che porta alla nostra personalità alimentando e nutrendo il legittimo bisogno di apprezzamento altrui.

 Quando però tutto questo non basta più (o almeno è stato soddisfatto), quando si affacciano altre esigenze, quando scelgo un lavoro piuttosto che un altro, di apprendere qualcosa di nuovo, di dedicare del tempo a attività magari poco remunerative o per nulla, di dire di no o di si a un cliente non solo per soldi, allora diventa fondamentale cercare di capire e immaginare quella ricaduta di cui sopra.

 Questo PRINCIPIO porta con sé lo sviluppo di una qualità particolare che è l’ESSENZIALITÀ: nel fare, dire, pensare e soprattutto nell’Essere. Quando inizio a chiedermi se ciò che dico e faccio é utile, allora contengo e di molto tutto il mio stesso dire, fare, scrivere, essere.

Una sorta di PULIZIA per fare spazio a un modo più armonico di vivere e agire in ogni contesto: poco importa se si tratta dell’impiego che non amo e non ho scelto, anche in quel caso ogni minima azione e parola può essere misurata con il metro del PRINCIPIO DI UTILITÀ, applicandolo  magari a rendere migliore l’ambiente in cui agisco.

Un esempio? E’ utile in un ufficio unirsi alla lamentatio generale (e anche banale) alimentandola con parole già dette rispetto a torti/ingiustizie/errori? O forse sarebbe più utile tacere e riflettere sulle soluzioni costruttive anziché sui problemi?

Il massimo dell’applicazione di questo principio poi lo si raggiunge quando ad esso riusciamo a unire l’IMPERSONALITÀ: quello stato dell’essere che ci porta a non curarci più se ci verrà una ricompensa o saremo riconosciuti per le nostre azioni, perché la ricompensa sarà la riuscita dell’azione stessa e quanto avrà contribuito a rendere migliore quanto ci circonda.

 Se è il NUOVO che cerchiamo è già qui: rendiamolo visibile diventando davvero UTILI!

 

 

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